Memoria 3 Yuriko Hayashi
Come vivere, come pensare: il seguito de I figli di Hiroshima
Yuriko Hayashi
Nata a Hiroshima nel 1936 Presidente dell’Associazione Kyōchiku de I figli di Hiroshima (Genbaku no ko) Nel 2013 ha pubblicato I figli di Hiroshima: altre testimonianze (“Genbaku no ko” sono go) |
Yuriko Hayashi è una degli autori de I figli di Hiroshima, opera letta in tutto il mondo. Il libro raccoglie le testimonianze, curate e pubblicate dal defunto Arata Osada (professore emerito dell’Università di Hiroshima), di 105 persone che hanno vissuto il bombardamento atomico. Nove anni all’epoca dei fatti, Yuriko Hayashi ha dovuto affrontare tante avversità anche dopo la guerra, pertanto riportare alla mente quei ricordi non è stato facile.
Tuttavia, a 62 anni dalla pubblicazione, nel 2013 la signora Hayashi ha pubblicato I figli di Hiroshima: altre testimonianze, raccogliendo le memorie di 37 persone che, come lei, avevano contribuito a scrivere il primo libro.
Per lei è stato più difficile il dopoguerra, ma qual è il messaggio che vuole trasmetterci?
A 9 anni la morte era una costante al mio fianco
– Dov’era il 6 agosto 1945? E che cosa faceva?
All’epoca avevo 9 anni e frequentavo la terza elementare. Vivevo con i miei genitori e il mio fratellino di 2 anni nel quartiere di Dote (oggi Hijiyama), a 1,6 km dal centro dell’esplosione.
– Immagino che si stesse preparando per uscire per andare a scuola alle 8:15, giusto?
Di solito sia io che mio padre a quell’ora eravamo già usciti, ma per qualche motivo quel giorno eravamo ancora tutti a casa. Credo che, se ci fossimo comportati come al solito, qualcuno della nostra famiglia sarebbe morto.
Anche se ero in casa, in un istante sono stata sbalzata di qualche decina di metri. Tutto è diventato nero, poi a poco a poco si è rischiarato. Non avevo idea di dove fossi.
Un attimo prima che succedesse, mia madre mi stava attaccando i bottoni ai vestiti davanti all’ingresso. Mio padre si stava mettendo le scarpe per andare al lavoro. Ho visto una luce anche se ero ancora all’interno. È stato abbagliante. Un attimo dopo ho sentito un boato assordante. Poi il buio. Non sentivo né caldo né dolore. Dopo un momento di silenzio, è iniziato l’inferno. Lo ricordo chiaramente, come se fosse ieri.
– Quando parla di buio, intende dire che ha perso la memoria in quel momento?
No, intendo solo dire che è diventato tutto buio.
La maggior parte delle case all’epoca erano in legno e, dopo essere state rase al suolo dall’esplosione, hanno preso fuoco.
Fino ad allora, ci eravamo abituati a sentir suonare l’allarme e a scappare in un rifugio antiaereo ogni volta che si avvicinava un B-29. Quel giorno, però, l’allerta era stata revocata ed eravamo tutti tranquilli nelle nostre case. Questo ha probabilmente contribuito a peggiorare la situazione. Senza contare che non era come le bombe a cui eravamo abituati.
– Vi eravate abituati a scappare in un rifugio antiaereo. Ma lei in che modo percepiva il tutto a 9 anni? Pensava di poter morire in qualsiasi momento?
Be’, non sapevamo quando avrebbero attaccato.
All’epoca, i bambini dal terzo anno di scuola elementare erano stati obbligati a evacuare nelle campagne. In teoria ci sarei dovuta andare anch’io, ma ero troppo debole e sono rimasta a casa. Per questo mi sono trovata ad essere esposta alle radiazioni. Molti dei miei compagni di classe erano andati in campagna, quindi solo in pochi ne erano stati colpiti.
Pensavo che, vista la mia costituzione, non sarei vissuta a lungo, quindi ho preferito passare con la mia famiglia più tempo possibile, nonostante i bombardamenti. Ne ho parlato con i miei insegnanti e genitori, e sono potuta rimanere a Hiroshima.
La morte era una costante al mio fianco.
– Nemmeno la notte si riusciva a dormire tranquilli, vero?
Esatto. Tenevo di fianco a dove dormivo un cappuccio protettivo e alcuni oggetti da portarmi dietro nel caso fossi dovuta fuggire all’improvviso.
La bomba e la vita dopo l’esplosione
– Quando è caduta la bomba atomica siete stati sbalzati via di parecchio, vero?
Sì. Mio fratello era finito sotto un mobile o qualcosa di simile e mio padre l’aveva tirato fuori con tutte le sue forze. Mia madre era stata colpita da decine di schegge di vetro e stava sanguinando copiosamente. Quando era stata sbalzata via, aveva sfondato la porta a vetri e la finestra.
C’erano tante persone ferite, ma in quel momento non potevamo preoccuparcene. Alcuni frammenti di vetro rimasero nel corpo di mia madre per decenni e a volte le facevano male.
Siamo fuggiti verso il monte Hiji in quelle condizioni infernali. Il giorno dopo, siamo scesi a piedi lungo il versante opposto.
Quel giorno, ho visto un numero incalcolabile di cadaveri. Provavo una sensazione che non credo di poter esprimere a parole. Ero paralizzata, non sentivo paura o alcun malessere. Anche se stavo camminando scalza in mezzo alle fiamme, non sentivo caldo. Nonostante la calura, il fuoco delle radiazioni e i mobili che bruciavano dopo essere saltati in aria, siamo riusciti a scappare. Lungo la strada, mio padre distribuiva alle persone nei dintorni dell’acqua delle riserve antincendio che sembrava imputridita.
Ci è sembrato di camminare per un’eternità. Di recente ho percorso quel tratto perché dovevo fare un’intervista e in realtà è molto breve. Ma a quel tempo ci impiegammo ore, perché dovevamo camminare sopra dei cadaveri. Mi sembrava che la loro pelle si stesse staccando… ma non avevo tempo per soffermarmi su questi pensieri. Penso che gli dei mi abbiano fatto perdere la sensibilità perché ormai avevo superato il limite.
Siamo arrivati al rifugio antiaereo del quartiere di Hi jiyama, ma era già pieno e non siamo riusciti a entrare. Tra il caldo, l’odore dei corpi che bruciavano e i lamenti è stato terribile.
– Dieci giorni dopo è stata annunciata la fine della guerra. Come ha passato le sue giornate in quel periodo?
Siamo scappati verso la zona che non era bruciata, ma non avevamo più né casa, né cibo, né vestiti. Non avevamo più nulla. Ci accampavamo sul terrapieno lungo il fiume.
Durante la fuga, siamo finiti davanti alla fabbrica di dolciumi Mitsuboshi. Mio padre aveva qualche tipo di relazione con l’azienda, quindi abbiamo raccolto e mangiato alcuni dei biscotti bruciati che erano lì. Poi, abbiamo trovato un carro merci ribaltato sui binari; il riso che conteneva, in fiamme e sparso ovunque. Abbiamo tirato avanti con quello. Per il resto ci siamo nutriti di erba.
Non ricordo se tutto ciò sia durato dieci giorni o un mese. C’erano bambini con il corpo completamente bruciato e che avevano perso i genitori che si aggiravano in lacrime nei dintorni. Non sapevo chi fossero ma erano tanti. Li fermavamo e offrivamo loro del cibo.
– Cosa provava in quel periodo?
Se ci ripenso adesso, probabilmente avevo i sintomi da esposizione alle radiazioni atomiche. Non riuscivo ad alzarmi. Non avevo niente nello stomaco, ma avevo la nausea e vomitavo sangue. Anche se avevo del cibo davanti non riuscivo a mangiare. Ho pensato che sarei morta e, probabilmente, lo pensavano anche le persone intorno a me. Sono rimasta in quelle condizioni per mesi, non solo quando la guerra è finita.
Mia madre mi dava una specie di infuso di erbe. Non aveva un buon sapore, ma credo che abbia fatto effetto in qualche modo.
Mi rimanevano ancora tre anni di elementari, ma mi ricordo poco di quel periodo. Non ho nemmeno delle foto. Non ricordo chi fossero né il mio insegnante né i miei compagni di classe. Sembra quasi che i primi anni dopo la bomba atomica siano svaniti del tutto.
Quando ero al secondo anno di scuola media, uscì un libro intitolato I figli di Hiroshima [pubblicato nel 1951 grazie al professore emerito Arata Osada dell’Università di Hiroshima, che ha selezionato i racconti di 105 bambini esposti alle radiazioni della bomba atomica]. Anche io avevo contribuito a scriverlo e probabilmente è stato in quel momento che ho ripreso in mano la mia vita.
Ero stata incoraggiata dall’insegnante a farlo. All’inizio non ne avevo voglia, ma poi scrissi ciò che mi ricordavo di quei giorni. Molti bambini erano stati evacuati, quindi eravamo solo in due a essere stati direttamente esposti alle radiazioni.
– Immagino che non se la sentisse di scrivere, vero?
Non avevo mai dimenticato quei giorni, anche se ci avevo provato. Non solo il giorno in cui è caduta la bomba, ma anche il periodo successivo è stato molto difficile. È stata dura ricordarlo e mi ci è voluto molto tempo per scriverne.
Però c’era una parte di me che pensava che sarebbe stato meglio mettere nero su bianco quell’esperienza. Anche per il mio bene.
Solo nel febbraio dell’anno successivo alla sua pubblicazione ho scoperto che era diventato un libro. Quelle 105 testimonianze erano state raccolte in un volume, poi il professor Osada ci ha consegnato a mano una copia ciascuno. In quel momento mi sentii soddisfatta di aver scritto. Da allora, ritornai a comportarmi come al solito a scuola.
La vita nel dopoguerra è stata ancora più dura
– Ho letto alcuni articoli che riportano delle sue interviste e sono rimasta colpita dal fatto che abbia detto che la vita del dopoguerra è stata più dura. Può dirci cosa intendeva?
Certamente la bomba è stata un’esperienza terribile, uno sfortunato evento, ma gli anni che seguirono non riesco neanche a descriverli a parole. Non avevamo nulla: cibo, vestiti, una casa. Ho dei ricordi estremamente umilianti di quel periodo.
Anche mia madre era stata contaminata dalle radiazioni e si era ridotta a uno straccio. Avevamo sentito di un posto dove potevano curarla ma, dopo aver aspettato per molto tempo il suo turno, alla fine le avevano solamente applicato del mercurocromo sulla pelle. Non sarebbe certo guarita così. Mi sono chiesta perché ci stessero facendo questo.
La mia famiglia era piuttosto benestante prima della bomba. Ma, all’improvviso, il modo in cui le persone intorno a me mi trattavano e mi guardavano era del tutto cambiato. Anche a scuola i miei compagni e insegnanti mi trattavano crudelmente. Non so dire se sia stato più triste o umiliante…
Le persone che hanno scritto I figli di Hiroshima si riuniscono una volta l’anno e, com’è prevedibile, diciamo le stesse cose. Grazie a queste esperienze, ci rendiamo conto di quanto sia bello avere del cibo, un tetto sulla testa e una vita serena. Questa è la felicità. Accadono molte cose nel mondo, ma mi piacerebbe che chi non ha vissuto la guerra ascoltasse queste storie.
– C’era qualcosa che è stato per lei fonte di sostegno nei momenti più difficili?
Nel mio caso, ho avuto genitori amorevoli. Anche se tra i nostri domestici c’erano dei coreani, mio padre non ha mai fatto alcun tipo di discriminazione. Questa era una cosa piuttosto insolita all’epoca. Quando siamo scappati, ha portato con noi i domestici e persino i vicini. Era davvero una persona che trattava tutti gentilmente, senza distinzioni. Per questo probabilmente sono riuscita a vivere senza perdere la speranza.
Avevamo toccato il fondo, ma mio padre era benvoluto da molte persone, alcune delle quali ci hanno anche aiutato.
I miei non parlavano mai male di nessuno. Anche se non avevano praticamente nulla da mangiare, quando qualcuno chiedeva, gli davano tutto ciò che possedevano. Era una cosa naturale per loro. Per quanto fosse difficile la situazione, non hanno mai odiato nessuno.
La richiesta di cooperazione da parte dell’ABCC
– Prima ha parlato di contaminazioni da radiazioni. Può dirci che tipo di difficoltà ha riscontrato a livello fisico?
Ho capito solo dopo qualche anno perché le radiazioni fossero tanto terribili. A mia madre è venuto un tumore alla tiroide. Io ne ho avuto uno al seno destro, che poi è stato completamente rimosso.
All’epoca non conoscevamo la parola “radiazioni”, si parlava di “gas”. Pensavo che, avendolo inalato, avrei vomitato e la mia pancia si sarebbe gonfiata. Avevo visto la marea di corpi che galleggiavano nel fiume e tutti avevano la pancia gonfia. Quindi pensavo che succedesse questo se si inalava il gas. Quella per noi era la condizione di chi era stato colpito direttamente dalla bomba atomica.
Circa 6-7 anni dopo la fine della guerra, sul monte Hiji venne istituita una struttura dell’ABCC (Atomic Bomb Casualty Commission) [Comitato Investigativo sulle Ferite da Bomba Atomica; un’organizzazione nata negli Stati Uniti per la ricerca e lo studio dei sopravvissuti alla bomba atomica, non per fornire cure]. Siamo stati subito portati lì e sottoposti a esami umilianti. Non siamo stati trattati come esseri umani. Ero nuda, coperta solo da una stoffa sottile, circondata da medici americani, giapponesi e quelli che sembravano giovani specializzandi. Tutti ci squadravano ed esaminavano da capo a piedi.
L’espressione “eravamo delle cavie da laboratorio”, presente nella rappresentazione teatrale de I figli di Hiroshima, descrive perfettamente questa esperienza. Ci è stato anche prelevato molto sangue.
Ci sono andata per qualche anno, ma una volta iniziate le superiori ho iniziato a sentirmi in un tale imbarazzo. Mi dava fastidio, quindi sono scappata e ho smesso di andarci. Ma ora ho ripreso a frequentare la struttura. Hanno molto insistito perché tornassi. Provando a ragionare dal loro punto di vista, penso vogliano fare delle nuove analisi alla stessa persona per ottenere ulteriori informazioni.
– Ora non la trattano più come in passato, vero?
È completamente diverso. All’epoca probabilmente non ci vedevano come esseri umani. Stavano solo studiando gli effetti che la bomba, lanciata da loro, poteva avere sul corpo umano. La situazione è cambiata nel 1975, quando hanno deciso di operare in maniera congiunta con il Giappone. Alcune dottoresse si offrirono di aiutare e c’era anche un taxi che ci veniva a prendere e ci riaccompagnava. Ho pensato che, se le cose stavano così, potevo anche andare, e forse sarei stata di qualche utilità.
– A essere sincero, al suo posto non so se sarei riuscito a collaborare… Quali sono stati i suoi pensieri?
Ho riunito gli autori de I figli di Hiroshima e fondato un’associazione chiamata Kyōchiku, di cui sono presidente da alcuni decenni. Ogni anno, durante i nostri incontri, parliamo di diversi argomenti. In queste situazioni possiamo parlare più liberamente, rispetto a quando siamo con i nostri familiari o coniugi. Portando nel cuore lo stesso peso, possiamo darci un po’ di sollievo a vicenda. Quando sento queste storie, penso di aver trovato il mio ruolo.
La mia è stata un’esperienza spiacevole, ma è reale. Per trasmettere questi concetti al mondo non basta parlare della sofferenza di quel momento. Credo sia necessario raccontare anche quello che è successo dopo.
Potremmo dire che questo sia l’onere e l’onore di chi è rimasto. 140-150 mila persone sono morte senza poter dire nulla, senza capire cosa stesse succedendo, ma io sono rimasta in bilico tra la vita e la morte, sono sopravvissuta.
Questo è quello che stavo pensando mentre raccoglievo queste testimonianze (I figli di Hiroshima: altre testimonianze è stato pubblicato dalla signora Hayashi, che ha raccolto al suo interno i racconti di 37 persone che già avevano scritto nel primo volume).
I figli di Hiroshima è stato tradotto e distribuito in tutto il mondo. Questo mi ha fatto pensare che coloro che l’avevano letto si sarebbero potuti chiedere cosa fosse successo dopo alle persone che avevano vissuto quelle esperienze dolorose. Come è stata la loro vita dopo? E quali sono stati i loro pensieri?
All’inizio avevo girato dei video, ma sembrava tutto molto impostato ed era difficile far emergere i propri veri sentimenti. Allora ho preparato dei questionari da compilare, ma le loro risposte non erano state totalmente genuine. Nonostante le difficoltà, I figli di Hiroshima: altre testimonianze ha visto la luce. Ci sono voluti circa dieci anni.
– Le esperienze di ognuno di voi sono diverse, ma avete mai provato sentimenti comuni?
È proprio perché abbiamo vissuto momenti tanto dolorosi che ora possiamo essere grati e felici della vita normale che abbiamo.
I figli di Hiroshima e Gen di Hiroshima: ciò che si vuole trasmettere
– Può dirci qualcosa di più su I figli di Hiroshima: altre testimonianze?
Il libro raccoglie le testimonianze di 37 dei 105 autori de I figli di Hiroshima. È stato pubblicato nel luglio 2013 e, come per il precedente, vorrei che venisse letto in tutto il mondo. Il mio compito ora è quello di far arrivare questo libro a un numero sempre maggiore di persone.
– Anche se quello che prova ora è diverso da allora, potrebbe dirci ciò che pensava all’epoca degli Stati Uniti, dei militari o dell’imperatore? Quali erano i suoi sentimenti nei loro confronti?
Ero ancora una bambina e non avevo una vera e propria opinione sulla guerra.
Però, dato che in quel periodo anche mia madre era stata contaminata dalle radiazioni, odiavo la bomba e gli Stati Uniti. Poi, non ricordo bene quando… ho conosciuto degli americani ed erano tutti brave persone, mi piacevano. Ma allora perché eravamo arrivati alla guerra? Ho pensato che forse qualcosa l’avesse scatenata.
Una cosa come la “guerra”, dove esseri umani uccidono altri esseri umani, non dovrebbe esistere. È terribile sia per chi la fa sia per chi la subisce. Ancora oggi la gente finge che le tragedie non avvengano mai, vuole cancellare quello che succede.
Si è parlato molto della crudeltà e della comprensione della storia in Gen di Hiroshima [manga autobiografico di Keiji Nakazawa, basato sulla sua esperienza del bombardamento atomico]. Io conosco bene Nakazawa e lo reputo una persona genuina e semplice. Non è uno che perde tempo con inutili orpelli.
La guerra trasforma le persone in mostri, demoni. L’orrore della guerra consiste proprio nel trarre piacere dall’uccidere le persone ed è questo che voleva rappresentare.
Hanno definito troppo cruda la rappresentazione dei corpi coperti da vermi, ma la verità è che erano anche sui vivi. Anche mia madre aveva dei vermi che le uscivano dalle ferite, per quanto provasse a toglierli. Difficile da credere, vero?
In realtà c’era di più: viscere, occhi che fuoriuscivano… Ci sarebbe dell’altro ma non riesco a parlarne.
Lui sosteneva che, nonostante quei disegni, si fosse comunque trattenuto.
Parole e mezzi possono cambiare da persona a persona, ma quello che vogliamo comunicare è il desiderio di non vedere più nessuno subire simili sofferenze in futuro.
Anche esprimendo i propri pensieri a voce, le parole riecheggiano nella testa per molto tempo. Quando racconto la mia storia, sto male per 2-3 giorni. Non finisce tutto nel momento in cui ne parlo. Per me è difficile anche solo prepararmi per un discorso, perché devo tirare fuori un’esperienza dolorosissima. Spesso sono svenuta.
– Che cosa pensa lei del Giappone di oggi?
Lo trovo pericoloso. Avevo 5-6 anni prima della guerra e non ricordo benissimo, ma l’atmosfera mi sembra simile a quella di allora. Basti pensare al diritto di autodifesa collettiva o alla riforma della costituzione…
Dato che il nucleare fa parte del presente, rinunciarvi comporta delle spese e dei rischi, ma bisognerebbe proprio seguire questa strada. Non credo che il nucleare sia fine a sé stesso.
Quest’anno (2013) saranno passati 68 anni dal termine della guerra. Non siamo giunti alla fine o cose simili, ma è comunque probabile che i superstiti del conflitto non ci saranno più tra dieci anni. Per questo avvertiamo un senso di urgenza, di fretta. Ma anche un pericolo, quasi d’istinto.
– Per concludere, vorrebbe mandare un messaggio alle persone che stanno ascoltando quest’intervista?
Vorrei che viveste con l’obiettivo di creare un mondo senza guerre, dove non ci si debba uccidere a vicenda.
Tutti muoiono prima o poi, è la natura. Nessuno dovrebbe uccidere o essere ucciso ingiustamente. La guerra si origina da avidità, egoismo e codardia. (Fine)
(Intervista di Yōhei Hayakawa / Testo di Akiko Ogawa)
* L’audio di questa intervista è stato curato da Hajime Nakagawa, da tempo partner di Kiqtas per la produzione e l’editing del suono. Il testo è stato redatto dalla copywriter Akiko Ogawa. Cogliamo l’occasione per ringraziarli del loro grande sostegno. Grazie mille.
25 settembre 2015
Traduzione a cura di
Sapienza University of Rome
Department of Oriental Studies
Master di secondo livello in traduzione specializzata
サピエンツァ・ローマ大学
東洋研究学科
翻訳研修課程
Gaia Benetti, Luca Domenichini